Secondo il dizionario inglese Collins, con il termine craving indichiamo un desiderio intenso e prolungato, una bramosia o un appetito, verso qualcuno o, più spesso, qualcosa: cibo o altra sostanza.
Desiderio incoercibile, fame irresistibile, urgenza appetitiva di natura patologica, bisogno imperioso e desiderio incontrollabile, sono altre definizioni possibili.
Questa spinta verso l’obiettivo denota il più delle volte una dipendenza che si sviluppa nel tentativo di far fronte a situazioni emotive percepite come intollerabili e che portano a essere legati a situazioni esterne per regolare stati soggettivi interni.
Una definizione scientificamente utile del concetto di craving deve necessariamente partire dalla consapevolezza che si tratta di uno stato soggettivo ed eterogeneo (tratto dall’articolo di Stefano Canali e Giulia Liguori “Dipendenze, si fa presto a dire craving”) e che potrebbe essere utile caratterizzarlo a partire dalle descrizioni che ne da chi vive la condizione di dipendenza.
Secondo una prospettiva cognitiva il craving può comparire in due situazioni:
- Quando le condizioni esterne impediscono il consumo di cibo;
- Quando è il soggetto stesso a privarsene (ad esempio nel caso di una dieta).

Tutto comincia con uno stimolo.
Il craving sarebbe, infatti, spinto da fattori in precedenza associati con l’esperienza positiva avuta con la sostanza. Questi elementi svolgono così un ruolo “trigger”, cioè “grilletto”, che innesca il desiderio della gratificazione.
Può trattarsi di uno spot in tv, della vista di persone che mangiano, di una canzone o di un aroma. O anche solo un pensiero. La bocca comincia a salivare e la mente inizia a immaginare il sapore di quell’ottimo gelato in freezer o delle patatine in dispensa e il craving (desiderio ardente e attraente per il cibo) comincia a farsi sentire sotto forma di bisogno pressoché irresistibile.
Non troviamo pace fino a quando non abbiamo addentato dei biscotti o lasciato scivolare nell’esofago una tavoletta di cioccolata.
Purtroppo restiamo con la vaschetta di gelato vuota, le patatine che brontolano nella pancia lasciando sete e senso di colpa e nella confezione di biscotti ormai solo le briciole.
Questo perché il craving non è una voglia, un desiderio, un peccato di gola.
E’ una smania, un’onda che per un po’ ci travolge e ci fa perdere di vista il gusto, la fame, la golosità. E ci lascia avviliti sulla riva dello sportello in cucina, in preda a frustrazione, tristezza negligenza e una terribile sensazione di aver sbagliato per l’ennesima volta.
Quali sono gli stati d’animo che ci portano a essere più sensibili allo stimolo dei trigger?
- La
dieta e i tentativi di restrizione alimentare che possono facilmente
determinare:
- Fame eccessiva conseguente a tentativi di digiuno;
- Regole troppo rigide che finiscono per essere infrante.
- Assunzione di alcolici, che riduce la capacità di resistere a desideri immediati.
- Emozioni spiacevoli: stress, tensione, mancanza di speranza, solitudine, noia, irritabilità, rabbia, ansia, tristezza, stanchezza.
- Percezione
negativa delle proprie forme corporee:
- Sentirsi grassi;
- Prendere peso: salire sulla bilancia e pensare di essere aumentati di peso può incrementare il rischio di abbuffata.
Questi comportamenti e stati d’animo favoriscono l’esposizione ai messaggi esterni (vetrine di pasticcerie, profumi invitanti davanti ai fornai, cartelloni e messaggi pubblicitari di ogni genere) o interni (senso di sconforto, di vuoto, bocca asciutta, tristezza e perdita di controllo) che inducono un desiderio irrefrenabile di cibo o altro, determinano l’attivazione del craving e conducono in modo apparentemente incontrollabile verso l’abbuffata.
Questo, come spiega Piccinni, per due motivi fondamentali:
- La forza con cui desideriamo qualcosa, una forza che ci impedisce di controllarci e ci fa perdere la testa. Un desiderio estremamente più forte di quello generato dalle ordinarie scelte di cibo che quotidianamente ci troviamo ad affrontare.
- La specificità del carving, che serve a distinguerlo dal normale senso di fame: mentre qualsiasi alimento può saziare un fisiologico bisogno di nutrimento, solo quello desiderato ha il potere di tranquillizzare.
Cosa ci porta a scegliere, o meglio, a desiderare, un cibo anziché un altro?
Nello specifico: perché la smania di cibo che ci investe durante il craving non può essere saziata da carote e cetrioli?

Fondamentalmente perché mangiare un ortaggio fresco e di stagione non permette al nostro cervello di produrre la stessa quantità di dopamina, la molecola del piacere, che è rilasciata mentre ingurgitiamo un cibo più elaborato. Sembra, infatti, che il rilascio di dopamina sia in relazione alla varietà di sapori, aromi e di consistenze dell’alimento che mettiamo in bocca.
Le multinazionali del settore agro-alimentare hanno compreso, infatti, che il giusto mix per creare dipendenza dal cibo è zucchero+grasso+sale! Così nasce il comfort food: il cibo che, stimolando le aree cerebrali collegate alla percezione del piacere, consola e genera assuefazione e dipendenza.
Molto è stato detto di un’esperienza che per il momento sembra più facile vivere che comprendere e, ancor più, risolvere.
Il craving e la smania da cibo, che ci fanno perdere il controllo di tutti i buoni propositi che inseguono uno stile alimentare adeguato, sembrano irrefrenabili, improvvisi e catalizzatori di tutta l’energia disponibile.
Che si decida o meno di teorizzare gli episodi di abbuffate da cibo come dipendenze, che si provi a curare patologie legate ai disturbi del comportamento alimentare (o dell’alimentazione e della nutrizione), in particolare la bulimia e il binge eating, con i passi del percorso degli alcolisti anonimi o con la terapia cognitivo comportamentale o attraverso differenti modalità d’intervento, credo che il desiderio irrefrenabile dell’assunzione di cibo sia qualcosa di molto vicino, pur se non sovrapponibile, all’esperienza che precede l’astinenza fisica da sostanze.
Il pensiero ossessivo sul cibo che caratterizza e condiziona la vita di persone con un vissuto alimentare difficile e/o patologico è vicino all’esperienza del soggetto dipendente da sostanze sia nell’intensità dell’evento che nella difficoltà di vivere una quotidianità e una socialità funzionali alla libera espressione di sé e alla ricerca di piaceri e soddisfazioni di altro tipo.
Qualora si riuscisse a trovare la chiave psicologica, emotiva e comportamentale per sostenere la bramosia che porta all’abbuffata, si libererebbero molte persone da pesanti catene.
E’ importante non perdere di vista che chi mangia le proprie emozioni lo fa per paura di viverle troppo intensamente e di esserne sopraffatti! Per questo possiamo affermare con sicurezza che curare e nutrire la propria intelligenza emotiva possa essere un forte aiuto.
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